Un sogno chiamato Stadio Flaminio…

Un sogno chiamato Stadio Flaminio…

Il 18 luglio del 2003 è la data che segna per l’ultima volta le gesta “europee” degli atleti della S.S. Lazio allo Stadio Flaminio. Lazio-Chelsea, seppur amichevole di lusso, è l’ultima partita dal forte richiamo internazionale. Il 20 agosto 2006 invece è la data che chiude per sempre la storia del primo Club della Capitale all’interno della leggendaria Arena, incontro di Coppa Italia Lazio-Rende 4-0.  Ma torniamo a quella serata, caldissima ed afosa di venerdì 18 luglio 2003, il Flaminio si presenta esaurito in ogni ordine di posto, con il pubblico biancoceleste assiepato sugli spalti e non più abituato ad accomodarsi in quegli spazi cosi ristretti del secondo impianto romano. La gente è tanta, il caldo è opprimente, la voglia di scendere negli spazi sottostanti è repressa perché le vie di fuga per lasciare l’impianto sono pochissime e quasi inaccessibili. Ma il fascino del Flaminio è talmente forte che ogni spettatore è attore protagonista dello spettacolo perché è proprio lì, a due metri dal proprio idolo. È quella serata fu davvero inebriante e maestosa. Il lusso di un’amichevole contro i londinesi del Chelsea, guidati dal ex romanista Ranieri, un test probante per la nuova Lazio di Mancini, costruita per affrontare da subito, e per bene, il preliminare di Champions League imminente. Nella prima frazione, al 32’, è proprio Simone Inzaghi, fresco ex allenatore biancoceleste, a portare i capitolini in vantaggio. Al 51’ della ripresa fu Stankovic a fissare il risultato sul 2 a 0 definitivo.

Da quella data ad oggi per il catino del Flaminio si chiudono per sempre le porte alla S.S. Lazio e per l’impianto inizia una fase di decadenza che lo porta all’abbandono di ogni attività sportiva. Dal teatro della storia a rudere a pezzi, oggi lo Stadio Flaminio versa in una situazione di grave degrado e desolazione, tra atti vandalici e occupazioni abusive, erbacce e gradinate pericolanti, macerie e sporcizia (fu trovato anche amianto nella zona della Curva Nord) materassi e sanitari divelti, triste dimora di sbandati e senzatetto. L’ 8 giugno 2021 probabilmente segnerà una nuova era per la vita dello stadio Flaminio: intanto ripercorriamo la sua storia attraverso il racconto dell’impianto da parte dello scrittore Sandro Solinas.

 

Una volta abbandonato il campo della Rondinella, la Lazio si trasferì allo Stadio del Partito Nazionale Fascista (oggi Flami­nio) che pur avendo perduto ormai da oltre mezzo secolo il primato tra gli stadi capitolini a vantaggio del catino dell’Olimpico, rimane senza ombra di dubbio un punto di riferimen­to per la storia biancoceleste oltre che un’ec­cellente struttura architettonica. Fu costruito nel 1911 in occasione dei festeggiamenti per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, durante i quali fu avviato un programma urbanistico rinnovatore che vide sorgere a Roma anche il Vittoriano, il Palazzo di Giustizia (pronta­mente ribattezzato il palazzac­cio dai romani) ed il grande comprensorio della passeggiata archeologica, oltre 40.000 metri quadrati di verde tra l’Aventino e il Celio. Allora era fortemente avvertita la necessità di dotare Roma di una struttura sportiva degna della capitale; il mito di Olimpia, ridestato dal barone Pierre De Coubertin, aveva do­nato allo sport ed alla competi­zione atletica una nuova dignità, tanto che Roma era stata invita­ta ad ospitare i giochi olimpici del 1908 dal Congresso del CIO riunitosi a Londra quattro anni prima. L’incarico di realizzare lo Stadio Nazionale, così chiama­to in origine quello che a tutti gli effetti può essere considerato il primo impianto dell’e­ra moderna assieme all’infausto Stadium di Torino, fu affidato all’architetto Marcello Piacentini Nel suo progetto Piacentini inte­se manifestamente richiamare i tratti classici dei modelli ellenici dalla antica forma ad U allungata, in particolare lo Stadio Olimpico di Atene. Esternamente tuttavia le decora­zioni che ornavano l’impianto presentavano un carattere tipicamente romano, soprattutto nell’ingresso monumentale formato ai lati da due enormi corpi laterali che reggevano le colossali statue sedute rappresentanti la For­za e la Civiltà, sui cui basamenti trovavano spazio targhe, motti e motivi vari. Interna­mente, in posizione allineata, si trovavano in­vece le quattro colonne onorarie, congiunte tra loro per mezzo di corone, nastri e festo­ni di bronzo, portanti le statue bronzee che simboleggiavano le vittorie sportive di Terra, Acqua, Aria e Fuoco. Lo stadio, costruito su un’area di 32.000 m2 dalla ditta “V. Visentini e figlio” di Torino, misurava circa 220 metri in lunghezza e 120 in larghezza ed era com­posto da due lunghe gradinate raccordate da un lato a semicerchio. Un lato rimaneva così aperto, accogliendo le due entrate per il pub­blico oltre all’ingresso trionfale degli atleti o dei protagonisti delle manifestazioni ospitate. All’interno trovarono posto piste podistiche e ciclistiche sviluppate per quasi 400 metri, mentre dentro agli spalti furono ricavate del­le aree, organizzate su due piani, destinate alla sede dell’Istituto Nazionale per l’Educa­zione Fisica, e numerosi locali utilizzati come palestre, bagni, refettori, uffici, sale di lettura, punti di ristoro e dormitori per gli atleti. Così concepito lo Stadio Nazionale era destinato a far da cornice principalmente ad eventi di atletica leggera e in verità non fu mai utiliz­zato per gare internazionali di calcio, venen­do presto abbandonato durante la Grande Guerra, senza mai essere stato completato secondo il progetto iniziale. Lo Stadio Nazio­nale fu inaugurato alla presenza dei Sovrani il 10 giugno 1911; poi, in parte già danneg­giato dall’usura e da numerose lesioni inter­ne, fu ristrutturato una prima volta nel 1927 su iniziativa di Augusto Turati cambiando il proprio nome in Stadio del Partito Nazionale Fascista. Proprio il regime di Mussolini, che aveva acquistato il complesso dal Governa­torato, cominciava allora ad investire risorse nelle strutture sportive in tutto il territorio na­zionale, avendo individuato nel sempre mag­giore seguito di massa un importante terreno di consolidamento e di ampliamento del con­senso sociale. La tribuna centrale fu dotata di una tettoia a struttura in cemento armato di 75 x 20 metri sotto la cui copertura in legno ed eternit trovavano riparo oltre 7.000 posti. Sul lato di ingresso fu inserita una piscina all’aperto (lunga 50 metri e larga 18) dotata di spalti, spogliatoi e castello per i tuffi alto 10 metri, mentre internamente all’impianto furono ricavati una seconda vasca coperta, numerose palestre, alloggi e gli uffici della direzione generale del CONI e delle Federa­zioni Sportive. Nella curva sorse addirittura un albergo di tre piani in grado di accogliere seicento atleti ripartiti in settanta dormitori. Il campo di calcio passò alle misure richieste dal CIO di metri 110 x 60, mentre la forma della pista podistica a ferro di cavallo fu resa anulare mediante la costruzione di un se­condo raccordo semicircolare. Sulle quattro corsie (5 sul rettilineo) della pista di atletica, nel 1931 fu installata provvisoriamente an­che una pista ciclistica in legno richiesta per la disputa dei campionati mondiali del 1932. I lavori furono svolti ancora dall’architetto Piacentini, questa volta assieme agli inge­gneri Orazi e Guazzaroni dell’ufficio Tecni­co Comunale, ma se da un lato favorirono un miglioramento funzionale della struttura, dall’altro comportarono la dolorosa rinuncia al maestoso ingresso monumentale. Questo fu sostituito da una più discreta facciata clas­sicheggiante, alle cui spalle si addossavano le gradinate della piscina scoperta, composta da tre fronti alti e curvilinei divisi da quattro semicolonne in laterizio sormontate da impo­nenti gruppi bronzei realizzati nel luglio 1929 dallo scultore Amleto Cataldi raffiguranti il Calcio, la Corsa, la Lotta e il Pugilato, oggi collocati nei giardini del Villaggio Olimpico. Ai fianchi della parete in pietra da taglio vi era da un sistema di vomitori comunicanti di­rettamente con l’esterno, secondo il modello dell’antica Roma. Lo stadio fu ufficialmente inaugurato il 25 marzo 1928 con una gara che vide l’Italia guidata da Baloncieri supe­rare per 4 a 3 la rappresentativa magiara. Tre anni dopo lo Stadio PNF divenne il campo di gioco della S.S. Lazio, mentre la Roma cominciò ad utilizzarlo solamente a partire dal 1940, una volta abbandonato il campo di Testaccio. La “prima” laziale al nuovo sta­dio fu tuttavia proprio un turbolento derby con la Roma, disputato il 24 maggio 1931 e terminato con il risultato di parità, 2 a 2, ma soprattutto con una gigantesca rissa finale che comportò la sorprendente squalifica di un turno anche per il Campo Testaccio. In occasione del Mondiale del 1934 fu costrui­ta una grande tribuna nello spazio occupato dalla piscina mentre le aree situate dietro le porte del campo di gioco ed i rettilinei del­la pista podistica furono occupati con piani inclinati per incrementare ulteriormente la capienza dell’impianto. In breve tempo lo Stadio PNF divenne il punto di riferimento dell’attività sportiva (e nondimeno politica) della Capitale ospitando, tra l’altro, la vit­toriosa finale della seconda edizione della Coppa Rimet contro la Cecoslovacchia, su­perata per 2 a 1, il 10 giugno 1934 di fronte ad oltre 50.000 spettatori in delirio. Lo stadio fu propagandato come uno tra i più moderni e completi impianti costruiti in Europa nono­stante la promiscuità dei riferimenti architet­tonici adottati e le problematiche legate all’ eccessivo numero di discipline praticate. Le consistenti migliorie apportate dai lavori di ammodernamento non potevano comunque cancellare i gravi difetti di un’errata impo­stazione iniziale, come l’inadeguato schema planimetrico a U, il cattivo orientamento e l’inosservanza della curva di visibilità. Dal 1940 anche la Roma cominciò ad utilizzare lo Stadio PNF, in seguito requisito dalle trup­pe alleate ed alternato con i campi dell’Appio e della Rondinella nelle gare del campiona­to romano, disputato nel 1943-44 in sostitu­zione dei tornei nazionali. Col passare degli anni lo stadio PNF rivelò nuovamente limiti funzionali e, soprattutto, di capienza tanto che a Roma tornò a manifestarsi l’esigenza di nuove strutture sportive. In questo clima gli architetti Pier Luigi Nervi e Cesare Valle presentarono il progetto per l’imponente Sta­dio di Roma, capace di oltre 100.000 posti, che tuttavia non fu mai realizzato né a Roma, né in Italia, ma fu ripreso a Rio de Janeiro, diversi dopo, per la costruzione del celebre “Maracanà”. Il terreno al Flaminio (nel frat­tempo tornato a chiamarsi Stadio Nazionale e poi intitolato al grande Torino scomparso a Superga) venne abbandonato dalla Lazio nel 1953 quando fu costruito il nuovo Stadio Olimpico. Tuttavia, il primo luglio di quat­tro anni dopo, in previsione dell’imminente manifestazione olimpica, il vecchio stadio venne demolito e ricostruito interamente su progetto del celebre architetto Pier Luigi Nervi. Attraverso l’uso di elementi prefabbri­cati in cemento armato con ballatoi a sbalzo sostenuti da mensole inclinate, Nervi realizzò un’eccellente struttura assai funzionale e mo­derna che allontanò rapidamente il ricordo delle severe linee elleniche del vecchio Sta­dio PNF. Il nuovo stadio, per quanto sempli­ce nella struttura, non mancava di originalità con il suo profilo ondulato ribassato nei set­tori di curva e la struttura esterna caratteriz­zata dalle travi perimetrali che in corrispon­denza della tribuna principale si ergevano a sostenerne la copertura. Il Flaminio, così venne chiamato l’impianto, fu inaugurato il 19 marzo 1959 con un incontro tra le rap­presentative dilettanti di Italia ed Olanda e venne principalmente destinato alle gare di calcio (ospitò infatti finali e semifinali olimpi­che) pur dovendo necessariamente compren­dere una serie di strutture sportive in modo da consentire lo svolgimento concomitante di più eventi. Tra queste meritano una men­zione la piscina riscaldata di metri 25 x 10 e le palestre destinate alla scherma, al pugilato, alla lotta, ai pesi ed alle attività ginniche. Co­struito nella medesima area del precedente impianto, il nuovo Flaminio poteva conte­nere 55.000 spettatori (24.300 seduti, il resto in piedi nell’area posta dietro ciascuna delle due porte), di cui 8.000 al coperto nella tri­buna principale, al cui interno furono altresì ricavati numerosi locali medici e di servizio. La moderna funzionalità dello stadio roma­no era testimoniata dall’ampia area dedicata a stampa e televisione, ulteriormente incre­mentata durante l’evento olimpico e compo­sta attualmente dalle 112 cabine a sbalzo e dal potente impianto di illuminazione artifi­ciale dello stadio formato da 240 proiettori collocati sulle quattro torri faro metalliche alte più di quaranta metri. La Lazio a torna a giocare al Flaminio molti anni dopo, durante i lavori
di ricostruzione all’Olimpico per i Campionati Mondiali di Italia ’90. Per l’intera stagione 1989/90 i
tifosi biancazzurri dovettero necessariamente trasferirsi, stringendosi non poco, sugli spalti del secondo stadio della Capitale.  Il prato dello Stadio Flaminio è stato a lungo utilizzato anche dalla Nazionale Italiana di rugby per gli impegni interni del prestigioso torneo “Sei Nazioni” cui gli Azzurri partecipano – con risultati piuttosto modesti – dall’anno 2000. Nonostante le tribunette mobili aggiunte come estensioni di ciascuna curva in occasione degli incontri, l’impianto capitolino è sempre rimasto lo stadio più piccolo della manifestazione. Il Comune di Roma approvò pertanto un progetto di ampliamento della capienza del Flaminio a 42.000 posti attraverso il mantenimento totale del catino esistente e la realizzazione di strutture rialzate in ferro. I lavori di ampliamento non furono però mai eseguiti,
complice anche il ritrovamento di importanti reperti archeologici rinvenuti dai tecnici della soprintendenza nell’area compresa tra il cancello e gli ingressi dello stadio. Gli scavi riportarono alla luce le mura, perfettamente conservate, di un mausoleo sepolcrale del I secolo d.C., oltre a una piccola urna in marmo. Il perimetro dell’area, un tempo coperta dal passaggio dell’antica Via Flaminia, si estendeva su una superficie di circa cento metri quadrati su cui era prevista la costruzione di una delle due rampe di scale di accesso alle gradinate superiori.  La gara contro la Francia del 12 marzo 2011 resta l’ultima apparizione della palla ovale al Flaminio, una vibrante
vittoria di misura colta nel palpitante finale, quasi un ultimo coup de théâtre da attore consumato
prima di dirsi addio. Ma il domani del calcio romano forse sarà ancora qui, a fare da cornice alle gare della Lazio, i cui sostenitori, non faticano a riconoscere il valore e il fascino del prestigioso impianto. Nonostante abbia avuto un’origine travagliata e un’evoluzione alquanto tortuosa, l’arena ai piedi di Monte Mario mantiene infatti un’indubbia grazia legata al contesto paesaggistico e storico nel quale è posta. Lo sanno bene, in particolare, i tifosi che si recano alla partita attraversando il vicino Ponte Milvio, ieri crocevia (fisico e spirituale) dell’Urbe e oggi cuore della movida capitolina. Pochi sostenitori nel mondo possono raggiungere il loro stadio percorrendo un ponte costruito duemila anni fa. (di Emiliano Foglia)

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