Dalla polvere di Piazza d’Armi al prato dell’Olimpico, la storia

Dalla polvere di Piazza d’Armi al prato dell’Olimpico, la storia

La storia del calcio, scriveva Borges, ricomincia ogni volta là dove un bambino prende a calci qualcosa per la strada. Una strada fatta di passione ed emozioni pure, lacrime e sudore, tanta polvere e qualche filo d’erba; un lungo viale nato chissà dove e diretto al centro del cuore di ogni tifoso, l’unica arena che conta davvero. Una strada che tanto tempo fa passò anche nella nostra città, dalle parti di Piazza d’Armi. Allora il bambino e il bersagliere si incamminarono assieme e con loro partì anche l’aquila. Furono visti ai margini ombrosi di Villa Umberto, poi al di là del Tevere, alla Farnesina, e ancora al quartiere Flaminio, per lungo tempo, prima di giungere al Foro Italico. Se le emozioni sfuggono ad ogni certezza e limitazione, è pur vero che il tifo e la passione sono un luogo ben definito nel tempo e nello spazio. Quello abitato dalla gente laziale oggi si chiama Stadio Olimpico; ieri era la Rondinella, domani chissà. Uno scrigno di ricordi ed emozioni per intere generazioni di tifosi biancocelesti, troppe volte dimenticato senza un vero perché. Questa è la loro storia. Una storia molto italiana e molto romana, a volte forse segnata da errori, sprechi, degrado, eccessi ed approssimazione, ma anche ricca di gloria, successo e talento. La loro storia, la nostra storia. Amatela, sostenetela, rispettatela.

Nella Roma Imperiale erano assai numerosi i luoghi dedicati alle attività ludico-sportive e se il Colosseo ne rappresenta tuttora l’esempio più diretto e conosciuto, non possono non essere menzionati i magnifici stadi dalla classica forma a U allungata di derivazione ellenica che per secoli accolsero le competizioni agonistiche dell’Urbe. Ai piedi del Palatino è ancora possibile ammirare il Circo Massimo, posto non lontano dall’Ippodromo della Domus Augustiana (o Stadio degli Imperatori); sull’Appia sorgeva il Circo di Massenzio mentre nell’attuale Piazza Navona un tempo trovava spazio lo Stadio di Domiziano. E poi il repubblicano Circo Flaminio, quello di Variano vicino a Porta Maggiore e quello privato di Caligola dove Nerone si esercitava prima delle esibizioni e dove furono martirizzati molti cristiani, accusati dall’imperatore di essere gli autori dell’incendio del 64. Qui è morto anche San Pietro, seppellito poi in una zona a fianco del circo stesso. La storia degli stadi romani dedicati al gioco del calcio nell’era moderna non ha invece goduto di cotanta magnificenza ed in verità è stata piuttosto travagliata, rimanendo in buona parte legata alle vicende delle società sportive che rappresentavano la Capitale. A portare il calcio a Roma fu la Lazio, nata come Società Podistica all’inizio del secolo passato per volontà di nove giovani sportivi capeggiati dal sottoufficiale dei Bersaglieri Luigi Bigiarelli, riunitisi – così riportano le cronache del tempo – su una panchina del Lungotevere di fronte alla Piazza d’Armi, oggi Piazza della Libertà. Era il 9 gennaio 1900, una sorta di Anno Santo per i calciofili della Capitale dove, tra le antiche carrozze e il primo tram elettrico, ancora non esisteva lo Stadio Nazionale del quartiere Flaminio, sorto nel 1911 ma mai utilizzato per gare internazionali e presto abbandonato durante la Grande Guerra. Nei primi anni di attività la Lazio utilizzò diversi campi cittadini a partire proprio dal terreno della Piazza d’Armi del quartiere Prati, non lontano dall’Olimpico, dove il 16 maggio 1902 fu giocata la prima sfida stracittadina in assoluto, vinta dai biancocelesti per tre a zero contro la Virtus. L’ampio spiazzo erboso era utilizzato per le manovre militari delle vicine caserme e si trovava nell’area formata dal Lungotevere delle Armi – un tempo non asfaltato – con l’attuale Viale Carso, Viale Angelico e Viale delle Milizie, il cui tratto finale veniva utilizzato anche per i campionati studenteschi. L’area, approssimativamente un chilometro quadrato circondato da un doppio filare alberato, era un tempo chiamata Campo di Marte e rappresentava allora il margine occidentale della periferia romana. Il campo di gioco dei pionieri laziali misurava inizialmente metri 100 x 50, era situato sul lato compreso tra il Lungotevere e Viale delle Milizie e disponeva di porte in legno costruite dal falegname Alberto Canalini. In previsione delle manifestazioni organizzate dall’imminente Esposizione per il cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, l’allora presidente laziale Fortunato Ballerini si attivò per assicurare alla squadra un nuovo terreno di gioco. Dall’Assessore ai Beni Patrimoniali, Leopoldo Torlonia, Ballerini ottenne i due campi incolti del Parco dei Daini situati ai margini di Villa Umberto, l’attuale Villa Borghese (dove la Lazio aveva già fatto qualche fugace apparizione a Piazza di Siena). In meno di due anni, grazie all’aiuto del Genio Militare che concorse a spianare il terreno, furono creati due campi di gioco impreziositi dagli spogliatoi e dagli uffici societari ricavati – non senza fatica – all’interno del padiglione dell’uccelliera, la casina di mezzo delle tre che costeggiavano l’attuale Via dei Daini. Il campo fu utilizzato dai biancocelesti nel periodo tra il 1906 ed il 1913 ma venne frettolosamente abbandonato, pare, in seguito ad una pallonata di Saraceni terminata sulla vettura della moglie del prefetto. Così la squadra dovette spostarsi momentaneamente al campo della Farnesina, situato assai lontano in prossimità del Poligono di Tiro oltre Ponte Milvio, più o meno nell’area occupata vent’anni dopo dallo Stadio dei Marmi. Il campo fu inaugurato con un secco 5-0 all’Audace e venne utilizzato per poco più di un anno, il tempo necessario per ultimare i lavori al campo della Rondinella, costruito sempre da Ballerini nel 1914 sulle colline dei Parioli ed inaugurato contro i medesimi avversari, battuti nuovamente per 3 a 2 il 1° novembre 1914. Il campo della Rondinella, utilizzato per le gare della squadra fino al 1931 e per gli allenamenti sino al 1957, riprendeva il nome da un’antica strada a sua volta così chiamata dall’insegna a forma di rondine di un’osteria che lì sorgeva. L’8 dicembre 1929 il campo fu teatro del primo derby capitolino con i rivali della AS Roma che nell’occasione si imposero al termine della gara per 1 a 0 con rete di Wolk. Qui furono inoltre disputate la finale nazionale persa il 22 luglio 1923 contro il Genoa e il primo incontro del campionato a girone unico, una sonante vittoria per tre a zero ottenuta il 6 ottobre 1929 contro il Bologna fresco campione d’Italia. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, in considerazione delle privazioni della popolazione civile, lo stesso Ballerini permise di trasformare il terreno del campo in “orto di guerra”. Il nobile gesto non venne dimenticato e anni dopo, il 2 giugno 1921, la Lazio con regio decreto venne dichiarata “Ente Morale” per meriti sociali, culturali e sportivi, unica società allora nel panorama sportivo nazionale. Nella ristrutturazione post-bellica dell’impianto vennero impiegati anche i tre vagoni carichi di materiale donati dalla Croce Rossa Americana ai giovani esploratori per erigere baracche prefabbricate. L’impianto della Rondinella assunse il suo aspetto definitivo nel 1924, allorché fu ruotato il campo di 180 gradi e venne realizzata la tribuna coperta in legno. Questa riprendeva in parte i colori della squadra, aveva un vasto tetto a falde inclinate e poggiava su una base di mattoni dove vennero altresì ricavati quattro spogliatoi con docce, la casa del custode ed un magazzino. Gli spalti, costituiti da ripiani lignei a tavolato, si sviluppavano anche sui restanti tre lati del terreno di gioco portando la capienza complessiva dell’impianto oltre i 15.000 posti. Il perimetro del campo e il coronamento sommitale erano recintati da parapetti a crociata romana. I lavori furono eseguiti dalla ditta Di Zitto & C. per conto della Società Anonima Campo Rondinella con un capitale in parte finanziato da sottoscrizioni pubbliche poi convertite in tessere di socio vitalizio. Il 13 ottobre 1928 venne inaugurato l’anello del cinodromo, inserito poco prima su iniziativa di due nobili romani, il conte Carlo Dentice di Frasso e il conte Romeo Gallenga Stuart. La storia del Campo Rondinella si interruppe improvvisamente una notte estiva del 1957, quando il cinodromo e la tribuna andarono a fuoco anticipando di qualche anno la fine dell’impianto comunque minacciato dal nuovo piano regolatore. Il nuovo cinodromo di Roma venne inaugurato il 22 gennaio 1959 a Ponte Marconi, pochi mesi prima che le ruspe iniziassero a demolire gli spalti della Rondinella per far posto all’attuale parcheggio del Villaggio Olimpico. Una volta abbandonato il campo della Rondinella, la Lazio si trasferì allo Stadio del Partito Nazionale Fascista – oggi Flaminio – che pur avendo perduto ormai da oltre mezzo secolo il primato tra gli stadi capitolini a vantaggio del catino dell’Olimpico, rimane senza ombra di dubbio un punto di riferimento per la storia del calcio nazionale oltre che un’eccellente struttura architettonica. Fu costruito nel 1911 in occasione dei festeggiamenti per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, durante i quali fu avviato un programma urbanistico rinnovatore che vide sorgere a Roma anche il Vittoriano, il Palazzo di Giustizia – prontamente ribattezzato il palazzaccio dai romani – ed il grande comprensorio della passeggiata archeologica, oltre 40.000 metri quadrati di verde tra l’Aventino e il Celio. Allora era fortemente avvertita la necessità di dotare Roma di una struttura sportiva degna della capitale; il mito di Olimpia, ridestato dal barone Pierre De Coubertin, aveva donato allo sport ed alla competizione atletica una nuova dignità, tanto che Roma era stata invitata ad ospitare i giochi olimpici del 1908 dal Congresso del CIO riunitosi a Londra quattro anni prima. Lo Stadio Nazionale, così chiamato in origine, fu realizzato per iniziativa di Luigi Lucchini, presidente dell’Istituto Nazionale per l’Educazione Fisica, dopo un referendum a cui parteciparono quelle che “L’architettura italiana” definì allora “…le persone più competenti ed eminenti della architettura e dell’arte…”. Furono scartate soluzioni differenti, tra cui l’idea di recuperare nientemeno che il Circo Massimo, come proposto dal commendatore Amante, già direttore capo-divisione dell’educazione fisica al Ministero della Pubblica Istruzione e fondatore di un’associazione ginnastica, ovvero quello di Massenzio situato presso la tomba di Cecilia Metella. Quest’ultima ipotesi, sostenuta dal sindaco Ernesto Nathan, venne scartata principalmente per la ridotta capienza e l’eccessiva distanza che lo separava dal centro della città mentre ad affossare le speranze di ridonare vita alla pista del circo posto sotto il Palatino furono le oggettive difficoltà ed i lunghi tempi necessari al recupero del prestigiosa struttura imperiale. Così venne deciso di costruire una nuova struttura sul terreno comunale posto di fianco a Villa Flaminia, in località Due Pini, non lontano dai campi ippici di Villa Glori e a breve distanza dalla collina dei Parioli e da Piazza del Popolo. L’incarico di realizzare quello che a tutti gli effetti può essere considerato il primo impianto dell’era moderna assieme all’infausto Stadium di Torino, fu affidato all’architetto Marcello Piacentini che si avvalse del contributo dello scultore Vito Prado e dell’ingegner Angelo Guazzaroni dell’ufficio tecnico comunale, affiancato per volontà di Nathan. Nel suo progetto Piacentini intese manifestamente richiamare i tratti classici dei modelli ellenici dalla antica forma ad U allungata, in particolare lo Stadio Olimpico di Atene. Esternamente tuttavia le decorazioni che ornavano l’impianto presentavano un carattere tipicamente romano, soprattutto nell’ingresso monumentale formato ai lati da due enormi corpi laterali che reggevano le colossali statue sedute rappresentanti la Forza e la Civiltà, sui cui basamenti trovavano spazio targhe, motti e motivi vari. Internamente, in posizione allineata, si trovavano invece le quattro colonne onorarie, congiunte tra loro per mezzo di corone, nastri e festoni di bronzo, portanti le statue bronzee che simboleggiavano le vittorie sportive di Terra, Acqua, Aria e Fuoco. Lo stadio, costruito su un’area di 32.000 m2 dalla ditta “V. Visentini e figlio” di Torino, misurava circa 220 metri in lunghezza e 120 in larghezza ed era composto da due lunghe gradinate raccordate da un lato a semicerchio. Un lato rimaneva così aperto, accogliendo le due entrate per il pubblico oltre all’ingresso trionfale degli atleti o dei protagonisti delle manifestazioni ospitate. All’interno trovarono posto piste podistiche e ciclistiche sviluppate per quasi 400 metri, mentre dentro agli spalti furono ricavate delle aree, organizzate su due piani, destinate alla sede dell’Istituto Nazionale per l’Educazione Fisica, e numerosi locali utilizzati come palestre, bagni, refettori, uffici, sale di lettura, punti di ristoro e dormitori per gli atleti. Così concepito lo Stadio Nazionale era destinato a far da cornice principalmente ad eventi di atletica leggera e in verità non fu mai utilizzato per gare internazionali di calcio, venendo presto abbandonato durante la Grande Guerra, senza mai essere stato completato secondo il progetto iniziale. Lo Stadio Nazionale fu inaugurato alla presenza dei Sovrani il 10 giugno 1911; poi, in parte già danneggiato dall’usura e da numerose lesioni interne, fu ristrutturato una prima volta nel 1927 su iniziativa di Augusto Turati cambiando il proprio nome in Stadio del Partito Nazionale Fascista. Proprio il regime di Mussolini, che aveva acquistato il complesso dal Governatorato, cominciava allora ad investire risorse nelle strutture sportive in tutto il territorio nazionale, avendo individuato nel sempre maggiore seguito di massa un importante terreno di consolidamento e di ampliamento del consenso sociale. La tribuna centrale fu dotata di una tettoia a struttura in cemento armato di 75 x 20 metri sotto la cui copertura in legno ed eternit trovavano riparo oltre 7.000 posti. Sul lato di ingresso fu inserita una piscina all’aperto (lunga 50 metri e larga 18) dotata di spalti, spogliatoi e castello per i tuffi alto 10 metri, mentre internamente all’impianto furono ricavati una seconda vasca coperta, numerose palestre, alloggi e gli uffici della direzione generale del CONI e delle Federazioni Sportive. Nella curva sorse addirittura un albergo di tre piani in grado di accogliere seicento atleti ripartiti in settanta dormitori. Il campo di calcio passò alle misure richieste dal CIO di metri 110 x 60, mentre la forma della pista podistica a ferro di cavallo fu resa anulare mediante la costruzione di un secondo raccordo semicircolare. Sulle quattro corsie (5 sul rettilineo) della pista di atletica, nel 1931 fu installata provvisoriamente anche una pista ciclistica in legno richiesta per la disputa dei campionati mondiali del 1932. I lavori furono svolti ancora dall’architetto Piacentini, questa volta assieme agli ingegneri Orazi e Guazzaroni dell’ufficio Tecnico Comunale, ma se da un lato favorirono un miglioramento funzionale della struttura, dall’altro comportarono la dolorosa rinuncia al maestoso ingresso monumentale. Questo fu sostituito da una più discreta facciata classicheggiante, alle cui spalle si addossavano le gradinate della piscina scoperta, composta da tre fronti alti e curvilinei divisi da quattro semicolonne in laterizio sormontate da imponenti gruppi bronzei realizzati nel luglio 1929 dallo scultore Amleto Cataldi raffiguranti il Calcio, la Corsa, la Lotta e il Pugilato, oggi collocati nei giardini del Villaggio Olimpico. Ai fianchi della parete in pietra da taglio vi era da un sistema di vomitori comunicanti direttamente con l’esterno, secondo il modello dell’antica Roma. Lo stadio fu ufficialmente inaugurato il 25 marzo 1928 con una gara che vide l’Italia guidata da Baloncieri superare per 4 a 3 la rappresentativa magiara. Tre anni dopo lo Stadio PNF divenne il campo di gioco della SS Lazio, mentre la Roma cominciò ad utilizzarlo solamente a partire dal 1940, una volta abbandonato il campo di Testaccio. La “prima” laziale al nuovo stadio fu tuttavia proprio un turbolento derby con la Roma, disputato il 24 maggio 1931 e terminato con il risultato di parità, 2 a 2, ma soprattutto con una gigantesca rissa finale che comportò la sorprendente squalifica di un turno anche per il Campo Testaccio. In occasione del Mondiale fu costruita una grande tribuna nello spazio occupato dalla piscina mentre le aree situate dietro le porte del campo di gioco ed i rettilinei della pista podistica furono occupati con piani inclinati per incrementare ulteriormente la capienza dell’impianto. La manifestazione iridata fu indubbiamente un grande successo, non solo per la squadra azzurra di Vittorio Pozzo: le testate giornalistiche presenti furono 275, di cui 68 italiane; l’EIAR curò le radiocronache e la Esclusiva Film di Roma le riprese cinematografiche. In breve tempo lo Stadio PNF divenne il punto di riferimento dell’attività sportiva – e nondimeno politica – della Capitale ospitando, tra l’altro, la vittoriosa finale della seconda edizione della Coppa Rimet contro la Cecoslovacchia, superata per 2 a 1 il 10 giugno1934 di fronte ad oltre 50.000 spettatori in delirio. Lo stadio fu propagandato come uno tra i più moderni e completi impianti costruiti in Europa nonostante la promiscuità dei riferimenti architettonici adottati e le problematiche legate all’ eccessivo numero di discipline praticate. Le consistenti migliorie apportate dai lavori di ammodernamento non potevano comunque cancellare i gravi difetti di un’errata impostazione iniziale, come l’inadeguato schema planimetrico a U, il cattivo orientamento e l’inosservanza della curva di visibilità. Lo Stadio PNF, oltre ai citati grandi eventi internazionali (cui va aggiunto il campionato mondiale universitario vinto nel 1927 dai nostri goliardi), ospitò le massime manifestazioni sportive fasciste, in particolare l’annuale concorso “Dux”, e dal 1931 fu messo dal Coni a disposizione del pubblico romano, per il quale vennero organizzati corsi di ogni genere al fine di istruire le masse nel campo dell’educazione fisica. Come ben rileva Francesco Maria Varrasi in Economia, politica e sport in Italia (1925-1935), questa scelta evidenziò la poco chiara destinazione della struttura, sospesa tra luogo di attività e luogo di spettacolo. Dal 1940 anche la Roma cominciò ad utilizzare lo Stadio PNF, in seguito requisito dalle truppe alleate (che lo usarono come sede del proprio comando e come enorme lavanderia e obitorio) ed alternato con i campi dell’Appio e della Rondinella nelle gare del campionato romano, disputato nel 1943-44 in sostituzione dei tornei nazionali. Col passare degli anni lo stadio PNF rivelò nuovamente limiti funzionali e, soprattutto, di capienza tanto che a Roma tornò a manifestarsi l’esigenza di nuove strutture sportive. In questo clima gli architetti Pier Luigi Nervi e Cesare Valle presentarono il progetto per l’imponente Stadio di Roma, capace di oltre 100.000 posti, che tuttavia non fu mai realizzato né a Roma, né in Italia, ma fu ripreso a Rio de Janeiro, diversi anni dopo, per la costruzione del celebre “Maracanà”. Il terreno al Flaminio, nel frattempo tornato a chiamarsi Stadio Nazionale e poi intitolato al grande Torino scomparso a Superga, venne abbandonato da Lazio e Roma nel 1953 quando fu costruito il nuovo Stadio Olimpico. Tuttavia il primo luglio di quattro anni dopo, in previsione dell’imminente manifestazione olimpica, il vecchio stadio venne demolito e ricostruito interamente su progetto del celebre architetto Pier Luigi Nervi, nuovamente impegnato in una struttura sportiva dopo il rivoluzionario impianto di Firenze. Al progetto, eseguito sotto la direzione dell’Ingegner Bruno Magrelli, parteciparono anche il figlio di Nervi, Antonio, ed il collega Alfonso Batoli. Attraverso l’uso di elementi prefabbricati in cemento armato con ballatoi a sbalzo sostenuti da mensole inclinate, Nervi realizzò un’eccellente struttura assai funzionale e moderna che allontanò rapidamente il ricordo delle severe linee elleniche del vecchio Stadio PNF. Il nuovo stadio, per quanto semplice nella struttura, non mancava di originalità con il suo profilo ondulato ribassato nei settori di curva e la struttura esterna caratterizzata dalle travi perimetrali che in corrispondenza della tribuna principale si ergevano a sostenerne la copertura. Il Flaminio, così venne chiamato l’impianto, fu inaugurato il 19 marzo 1959 con un incontro tra le rappresentative dilettanti di Italia ed Olanda e venne principalmente destinato alle gare di calcio (ospitò infatti finali e semifinali olimpiche) pur dovendo necessariamente comprendere una serie di strutture sportive in modo da consentire lo svolgimento concomitante di più eventi. Tra queste meritano una menzione la piscina riscaldata di metri 25 x 10 e le palestre destinate alla scherma, al pugilato, alla lotta, ai pesi ed alle attività ginniche. Costruito nella medesima area del precedente impianto, il nuovo Flaminio poteva contenere 55.000 spettatori (24.300 seduti, il resto in piedi nell’area posta dietro ciascuna delle due porte), di cui 8.000 al coperto nella tribuna principale, al cui interno furono altresì ricavati numerosi locali medici e di servizio. La moderna funzionalità dello stadio romano era testimoniata dall’ampia area dedicata a stampa e televisione, ulteriormente incrementata durante l’evento olimpico e composta attualmente dalle 112 cabine a sbalzo e dal potente impianto di illuminazione artificiale dello stadio formato da 240 proiettori collocati sulle quattro torri faro metalliche alte più di quaranta metri. Poco distante, Nervi aveva da poco costruito assieme ad Annibale Vitellozzi il Palazzetto dello Sport, un’arena a pianta circolare con cupola ondulata sorretta da 36 forcelle a forma di Y, ultimata nel 1957 ed ancor oggi utilizzata per ospitare varie manifestazioni sportive ed artistiche assieme al più grande Palazzo dello Sport, realizzato due anni dopo all’EUR assieme a Marcello Piacentini. Nel 1953, come detto, il calcio capitolino si spostò allo Stadio Olimpico, il cui primo nucleo in verità fu costruito già negli anni Trenta dopo che fu bonificata l’area posta ai piedi della collina di Monte Mario, tra il Tevere, Piazzale Milvio e Viale Angelico, nella zona nord-ovest della città, circa tre chilometri a nord del Vaticano e a non più di 1.500 metri dagli spalti del Flaminio. L’impianto sorge al centro del celebre Foro Mussolini, un complesso sportivo progettato con numerose varianti dall’architetto Enrico Del Debbio nel 1928 e fortemente voluto dal Duce che intendeva così rafforzare l’immagine di Roma anche sul piano sportivo. Il Foro, una vera e propria città dello sport, nacque per iniziativa dell’Opera Nazionale Balilla come ampliamento dell’iniziale progetto di realizzazione dell’Accademia Fascista di Educazione Fisica, i cui lavori ebbero inizio a partire dal campo per le esercitazioni il 5 febbraio 1928, eseguiti dall’impresa di costruzioni di Luigi Speroni. Come giustamente osservò Agnol Domenico Pica nel 1937 , “…Il Foro Mussolini è nato e cresciuto per gradi come ogni organismo vivo…”. Infatti, ideato inizialmente come fucina di educatori della gioventù inquadrata nell’Opera, l’ampio complesso sportivo si sviluppò successivamente come luogo delle manifestazioni paramilitari dei tesserati dell’organizzazione, sino a divenire il centro della celebrazione del mito della romanità e del “Duce nuovo Cesare”. A queste successive fasi corrispose una crescente monumentalità delle soluzioni adottate ed una notevole espansione della superficie occupata. La scelta dell’ubicazione dell’organico complesso sportivo fu dettata, oltre che dall’indubbia amenità dell’area, dalla posizione depressa di molte parti della stessa, atta così a creare gli invasi di campi da gioco, eliminando parte degli scavi e riducendo al minimo le costruzioni in elevazione. Non mancarono per la verità polemiche e perplessità, suscitate principalmente dal carattere malsano della zona, ridotta ad acquitrino e canneto e non di rado soggetta ad inondazioni del vicino Tevere. Particolarmente dannosa fu quella del 4 gennaio 1929 che invase la zona degli scavi costringendo gli addetti ai lavori a spostarsi in barca. Assai avventurosa fu la vicenda del gigantesco monolito utilizzato dall’ingegner Costantino Costantini per l’Obelisco Mussolini inaugurato nel decennale della Marcia su Roma, il 28 ottobre del 1932. Largo tre metri per tre, alto diciannove, pesava oltre quattrocento tonnellate e, ingabbiato e trascinato da uomini e buoi, superò pendenze anche del sessanta per cento quando venne calato dagli ottocento metri della cava delle Carbonera sulle Apuane (dove fu trovato dopo mesi di ricerche) fino al porto di Marina di Carrara. Da qui, sistemato sul galleggiante L’Apuano, il 6 maggio 1932 raggiunse il porto fluviale di San Paolo a Roma, dove rimase fermo ben quattro mesi durante la magra stagionale del Tevere. Il progetto globale del Foro Mussolini, cui in verità presero parte vari architetti, comprendeva anche la realizzazione di numerose altre costruzioni e strutture sportive, poi non tutte completate, tra cui campi da tennis, un teatro all’aperto, l’Accademia per la Musica e due piscine, una delle quali coperta. I lavori di maggiore importanza furono volutamente assegnati a ditte locali, tanto che alla gara d’appalto parteciparono solo imprese romane. Fu anche realizzato un nuovo ponte sul Tevere, in asse con il fronte principale del Forum Imperii, il foro dominato dall’Obelisco. Tra marmi, statue, fontane, obelischi e mosaici, l’area è tuttora visibile e perfettamente conservata, con il suo suggestivo fascino sopravvissuto a tempi e regimi. Nel 1932 Del Debbio concluse l’edificio dell’Accademia con il relativo campo di allenamento, il celebre Stadio dei Marmi, ultimato il 4 novembre. Come sottolinea Matteo Vercelloni nel già citato “1990 Stadi in Italia” “queste notevoli costruzioni presentavano un’architettura carica di alti valori morali e di contenuti retorici esemplari, espressi con una riuscita sintesi tra classicismo e modernità, tra novecentismo e metafisica”. Agli austeri volumi dell’Accademia furono affiancate le impegnative linee monumentali dello Stadio dei Marmi, il cui perimetro è caratterizzato dalla presenza delle sessanta statue donate dai comitati provinciali dell’Opera Nazionale Balilla raffiguranti atleti di varie discipline, ispirate alla Grecia classica e realizzate in marmo di Carrara, che “se oggi costituiscono il coronamento scultoreo dell’arena, allora rappresentavano anche la diretta metafora della virilità e della forza, emblemi educativi per la gioventù del Regime”. Ciascuna statua, costata all’incirca 60.000 lire, riportava incisa sulla base il luogo di provenienza volendo così simbolicamente riunire la gioventù italiana stretta attorno all’organizzazione fascista. Pur se lo sviluppo planimetrico adottato ricordava quello di molti stadi italiani dell’epoca, con due tratti rettilinei raccordati da archi di cerchio, assai più marcato era il riferimento al modello classico greco, non solo per la presenza delle statue. La struttura era infatti interrata di oltre 5 metri e su uno dei lati minori, quello rivolto verso il Tevere, presentava l’ingresso, tanto all’arena che agli spalti, che interrompeva la continuità delle gradinate nell’asse maggiore (a dividere il lato più lungo era invece un palco adibito a tribuna d’onore). Come detto, Del Debbio elaborò diverse soluzioni architettoniche per lo stadio principale e fu considerata anche la possibilità di una diversa collocazione della struttura, possibilmente nella valle di Macchia Madama ovvero nell’area poi occupata dalla Casa del Littorio, oggi sede del Ministero degli Esteri della Farnesina, completato nel 1960 dallo stesso del Debbio assieme agli architetti Moschini e Morpurgo. Lo stadio, i cui lavori ebbero inizio a partire dal 1932, fu inizialmente conosciuto come Stadio dei Cipressi e poteva ospitare nella prima fase non più di 10.000 spettatori sulle gradinate in travertino. Fu concepito in origine come un ampio invaso verde a somiglianza di Piazza di Siena e venne destinato principalmente all’atletica ed alle gare ginniche. Il progetto originario, poi modificato, rimandato e quindi definitivamente abbandonato in seguito allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, prevedeva tuttavia il completamento della struttura con la costruzione di altri tre ampi ordini di gradinate sul fianco di Monte Mario che avrebbero sensibilmente aumentato la capacità complessiva dell’impianto fino a 100.000 posti. In sostanza un ovoide asimmetrico sul lato maggiore il cui numero minore di gradinate sul lato a valle avrebbe permesso una magnifica visuale sul Foro e sulle colline di Villa Madama rispettando peraltro le contenute proporzioni e l’armonia dell’adiacente Stadio dei Marmi. Proprio il rispetto degli elementi naturali paesaggistici impose, o perlomeno suggerì, la costruzione di terrazze erbose in luogo delle opere murarie all’interno dell’impianto. Tale soluzione venne tuttavia meno nella seconda fase dei lavori, portati avanti nel 1933 con alcune variazioni dagli ingegneri Frisa e Pintonello assieme all’architetto Luigi Moretti, in cui furono elevate le gradinate anche nel settore longitudinale a valle, ossia sul lato verso il Tevere. Lo Stadio dei Cipressi possedeva un terreno di gioco per il calcio di m. 70 x 110, una pista per l’atletica lunga 600 metri e numerose strutture per le discipline di atletica tra cui il gruppo del salto in lungo che, sistemato fuori della pista podistica, conferiva allo stadio la caratteristica forma ellissoidale considerata ottimale per la visibilità del pubblico. Gli accessi degli atleti furono situati sull’asse maggiore dello stadio, mentre l’ingresso di Balilla ed Avanguardisti, che all’evenienza utilizzavano il campo per le parate, venne disposto verso valle, sull’asse minore. La tribuna stampa e quella delle autorità furono inserite nelle gradinate ricavate dalla collina. Il completamento dell’opera fu reso urgente dall’imminente visita di Hitler a Roma, durante la quale erano previste numerose manifestazioni di massa. Tuttavia a progredire furono solo le numerose costruzioni ed attrezzature sportive che completavano il progetto del Foro Mussolini, mentre cominciò ad attenuarsi l’interesse riguardo allo Stadio dei Cipressi, posto in ombra dalle problematiche legate al ruolo ed alla connotazione dell’intero complesso sportivo nell’ambito del territorio urbano. Moretti, in particolare, propose un sistema viario tale da fare assumere al Foro Mussolini la funzione di ingresso monumentale alla città di Roma. Allora fu anche considerata l’ipotesi di creare un “sistema di parchi” che potesse riunire in un unico insieme il verde del Foro, la collina dei Parioli, Monte Mario, Villa Borghese, Villa Glori e le altre zone verdi limitrofe. L’attenzione fu così rivolta quasi totalmente verso l’Accademia di Scherma della Casa delle Armi realizzata dall’architetto Luigi Moretti e successivamente adattata ad aula giudiziaria, la piscina del Palazzo delle Terme di Pier Luigi Nervi, la già citata Casa del Littorio e infine la Fontana della Sfera di Paniconi e Pediconi. Nel Dopoguerra ad occuparsi del recupero e del completamento delle gradinate dello Stadio dei Cipressi fu il CONI che nel frattempo aveva portato proprio nei locali dell’Accademia i suoi uffici, un tempo al Flaminio. Il trasferimento non avvenne in maniera indolore, in particolare per l’ex Palestra del Duce (apparsa brevemente anche in alcune scene del film “Miracolo a Milano” di De Sica) realizzata da Moretti, il cui calibrato e raffinato impianto originario fu purtroppo alterato dagli interventi di adattamento a sala per conferenze da parte dello stesso C.O.N.I. La designazione olimpica di Roma nel 1951 svolse indubbiamente un ruolo preminente nella decisione di dare inizio quanto prima ai lavori di completamento del vecchio Stadio dei Cipressi – nel frattempo rinominato Stadio Olimpico – dei quali fu incaricato l’ingegnere Roccatelli che si avvalse della consulenza dell’ingegnere Cesare Valle. Ad ultimare i lavori fu però l’architetto Annibale Vitellozzi, subentrato a Roccatelli nel frattempo venuto a mancare, occupandosi dello sviluppo architettonico della struttura (esternamente risolto con una finestratura perimetrale), della sistemazione dei locali interni (tra cui meritano una menzione il salone d’onore e l’ingresso al palco presidenziale) e della realizzazione delle 42 postazioni radio-tv, composte da una pensilina in ferro ed alluminio inserita come coronamento terminale sul lato ovest, l’attuale Tribuna Monte Mario. Una volta ultimata nel 1953, l’arena dell’Olimpico consisteva di una struttura ovale in cemento armato rivestito di travertino priva di copertura, salvo che per 294 dei 572 posti riservati alla stampa situati al di sotto della pensilina stessa. Lo stadio risultava infossato di 4,5 metri nel terreno, non di più per via della vicinanza del Tevere, ed articolato su un unico livello di spalti in grado di accogliere sui sedili in legno 84.000 spettatori (100.000 in supercapienza), poi ridotti a 54.000 posti a sedere (di cui 3.000 per la stampa) in occasione dei Giochi Olimpici nel 1960. L’armoniosa soluzione architettonica eseguita da Vitellozzi si poté dire senz’altro riuscita nonostante le corpose dimensioni dell’impianto (il perimetro misurava 800 metri, 319 l’asse longitudinale, 186 quello trasversale), ma andò in qualche misura perso l’iniziale intento di integrare lo stadio con il dolce versante alberato della collina di Monte Mario a causa soprattutto delle modifiche introdotte in ottemperanza alle nuove e più severe norme sportive internazionali in tema di sicurezza. Le due curve (come noto la Nord è la sede del tifo laziale, la Sud ospita invece i sostenitori giallorossi) erano posizionate assai distanti dal rettangolo di gioco e la visuale evidentemente ne risentiva non poco nonostante fossero stati preventivamente effettuati accurati studi di visibilità. La prima fila era ad oltre cinquanta metri dalla linea di fondo, così che la porta più lontana distava quasi duecento metri dagli spettatori più lontani. Le gradinate degli spalti si sviluppavano per un totale di 24 Km e rimanevano separate dal terreno di gioco e dalla pista di atletica mediante un fossato profondo e largo 2 metri. L’enorme distanza che separava i due settori di curva non bastò, purtroppo, ad evitare anni dopo la sconcertante uccisione di Vincenzo Paparelli, colpito da un razzo sparato dalla curva romanista durante il derby d’andata nel 1979. L’Olimpico fu ufficialmente inaugurato di fronte ad oltre 80.000 persone il 17 maggio 1953 con una prestigiosa gara degli Azzurri contro l’allora fortissima Ungheria di Puskas e Hidegkuti, autori di tutte le reti nel pesante 3 a 0 finale. In occasione della manifestazione di Italia 90, prima di propendere per l’ammodernamento delle strutture sportive esistenti fu a lungo prospettata l’eventualità di costruire un impianto ex novo altrove. Per diverso tempo, infatti, ci si interrogò riguardo all’opportunità di operare su una struttura nata come connubio irripetibile tra il Tevere e le pendici di Villa Madama, la cui suggestiva bellezza era sicuramente stata una delle principali motivazioni determinanti nella scelta dell’ubicazione del Foro, sessant’anni prima. In particolare lo studio Gregotti Associati progettò uno stadio da 100.000 posti nell’area della Magliana, appena fuori del Grande Raccordo Anulare in direzione del mare. La proposta venne scartata ed il conseguente concorso di appalto per la ristrutturazione dello Stadio Olimpico fu vinto dal progetto redatto dagli architetti Clerici e Vitellozzi assieme agli ingegneri Teresi e Michetti. Tale progetto fu peraltro ampiamente modificato in corso d’opera, sia per ridurre l’impatto visivo dei previsti otto piloni di sostegno della copertura, sia per le problematiche condizioni della Tribuna Monte Mario, la cui demolizione non era in origine prevista. L’ammodernamento dello stadio del resto dovette inevitabilmente tenere conto anche della necessità di adeguare l’impianto al carattere dell’imminente manifestazione, fortemente improntata ad un’ampia partecipazione dei media con relative esigenze di precipue strutture e spazi organizzativi. L’obiettivo di ottenere una capacità di 85.000 posti a sedere, numerati e coperti, fu comunque raggiunto attraverso la ricostruzione totale degli spalti ad eccezione della Tribuna Tevere che attualmente possiede 17.965 posti (130 riservati ai disabili) dopo l’aggiunta di 20 gradoni in alluminio che hanno permesso di arrivare all’altezza delle curve, entrambe ridotte di concavità ed avvicinate al terreno di gioco di nove metri. Oggi, ciascuna settore di curva può accogliere 23.473 spettatori ed è provvisto di un maxi-schermo, già utilizzato per i Campionati Mondiali di Atletica del 1987 e montato poco sotto la sommità degli spalti. Internamente sono presenti quattro palestre, magazzini, servizi e bar. La nuova Tribuna Monte Mario dispone invece di 17.745 posti ed è provvista di sala d’onore (cui non è possibile accedere indossando la sciarpa del proprio club), sala stampa e un parcheggio ricavato nel piano interrato. La ristrutturazione dello Stadio Olimpico fu completata dalla realizzazione della copertura totale degli spalti, progettata dagli ingegneri Majowiecki e Caloisi, un’unica tensostruttura composta da pannelli translucidi in teflon disposti su due anelli e poggiante su sedici pilastri, dodici in acciaio e quattro in calcestruzzo, costruiti esternamente allo stadio. Sul tetto  si posa spesso Olimpia, l’aquila laziale lanciata in volo sopra il pubblico prima delle gare dei biancocelesti. Prima che lo Stadio Olimpico venisse coperto, un discreto numero di tifosi era solito darsi appuntamento alla Madonnina, una grossa statua collocata sulla collina di Monte Mario da cui, nonostante alcuni tentativi di recinzione, era possibile assistere alla gara con l’ausilio di binocoli. Durante i lavori di ricostruzione all’Olimpico i tifosi di Roma e Lazio dovettero necessariamente trasferirsi per l’intera stagione 1989-90, stringendosi non poco, nel vecchio campo al Flaminio che ha oggi una capienza di 25.000 posti a sedere fissata dopo l’ultima ristrutturazione avvenuta sul finire degli anni Novanta. Per diverso tempo il Flaminio ospitò anche le gare della Lodigiani (successivamente passata alla denominazione di Cisco Roma e Atletico Roma F.C.), nata soltanto nel 1972 per volontà di alcuni dipendenti dell’omonima ditta di costruzioni del popoloso quartiere di San Basilio, che in pochi anni lasciò le categorie dilettantistiche per raggiungere addirittura la Serie C1 nel  ventennale della fondazione. Il prato dello Stadio Flaminio è stato a lungo utilizzato anche dalla Nazionale Italiana di rugby per gli impegni interni del prestigioso torneo “Sei Nazioni” cui gli Azzurri partecipano dall’anno 2000. Nonostante le tribunette mobili aggiunte come estensioni di ciascuna curva in occasione degli incontri, l’impianto capitolino è sempre rimasto lo stadio più piccolo della manifestazione. Il Comune di Roma approvò pertanto un progetto  di ampliamento della capienza del Flaminio a 42.000 posti attraverso il mantenimento totale del catino esistente e la realizzazione di strutture rialzate in ferro. I lavori di ampliamento non furono però mai eseguiti, complice anche il ritrovamento di importanti reperti archeologici rinvenuti dai tecnici della  soprintendenza nell’area compresa tra il cancello e gli ingressi dello stadio. Gli scavi riportarono alla luce le mura, perfettamente conservate, di un mausoleo sepolcrale del I secolo d.C., oltre a una piccola urna in marmo. Il perimetro dell’area, un tempo coperta dal passaggio dell’antica Via Flaminia, si estendeva su una superficie di circa cento metri quadrati su cui era prevista la costruzione di una delle due rampe di scale di accesso alle gradinate superiori. Abbandonato dal calcio e dal rugby, ma anche dal football americano un tempo ospitato con le gare dei Marines Lazio, oggi lo Stadio Flaminio versa in una situazione di grave degrado e desolazione, tra erbacce e gradinate pericolanti. Saltuariamente si è giocato a rugby anche allo Stadio Olimpico – nelle cui vicinanze peraltro ha sede la FIR – e quasi sempre per gare assai prestigiose (Sudafrica, Galles, Inghilterra solo per citarne alcune tra le più recenti). Impossibile invece elencare tutti gli importanti incontri di calcio disputati negli anni sul terreno dello Stadio Olimpico, utilizzato più volte anche per le finali dei principali tornei internazionali. Il nuovo Millennio ha inoltre riportato nella Capitale lo scudetto su entrambe le sponde cittadine: quella biancoceleste nel 2000, quella giallorossa l’anno seguente. Negli ultimi tempi, in verità, sia la Roma sia la Lazio hanno più volte manifestato l’intenzione di abbandonare l’Olimpico, ritenendolo strutturalmente poco adatto alla visione degli incontri di calcio. Le due società hanno ipotizzato la costruzione dei nuovi impianti fuori del Grande Raccordo Anulare: la Roma a Tor di Valle, nella periferia sud ovest della città; la Lazio sulla Tiberina. Se, dove e quando i nuovi impianti verranno effettivamente realizzati non è ancora dato saperlo, di sicuro nell’immediato futuro sarà ancora lo Stadio Olimpico a fare da cornice alle gare di entrambe le squadre capitoline, i cui sostenitori, pur mal sopportando la forzata convivenza, non faticano a riconoscere il valore del prestigioso impianto. Pur avendo avuto un’origine travagliata ed un’evoluzione alquanto tortuosa, lo stadio di Roma mantiene infatti un indubbio fascino legato al contesto paesaggistico e storico nel quale è posto. Lo sanno bene, in particolare, i tifosi che si recano alla partita attraversando il vicino Ponte Milvio. Pochi sostenitori nel mondo possono raggiungere il loro stadio percorrendo un ponte costruito duemila anni fa. di Sandro Solinas

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