La maglia come dività

La maglia come dività

Probabilmente la più importante partita della storia della Lazio è stata quella del 5 luglio 1987, incontro Lazio-Campobasso. Forse non è stata la partita più bella, forse non è stata meritevole di un’onorificenza o di un trofeo, ma in quella partita ci si giocava tutto, ci si giocava la storia della Lazio: o vita o morte! Quella gara coinvolse non solo una squadra, ma un popolo intero che per quel simbolo, quei colori e soprattutto per quella maglia si spostarono in massa, portando al San Paolo di Napoli oltre 25mila persone. Un esodo biblico che, dal casello Roma Sud fino a quello di Napoli, malgrado i mastodontici lavori sull’autostrada del Sole, produsse un’interminabile scia biancazzurra tesa a congiungere i due poli autostradali. La Lazio in quella stagione tornava ad esibire la maglia bandiera, la riedizione di quella maglia ideata dal presidente Casoni nel 1982 quella con l’aquila stilizzata sul petto, dalle ali lunghe e tese, per unire il suo popolo, metafora di un abbraccio. Appunto le lunghe ali tese e stilizzate, spiegate su quell’autostrada per unire Roma e Napoli, o vita o morte. Alle ore 17,30 andava in scena la partita delle partite, macchie celesti sugli spalti con bandiere, sciarpe, striscioni. In campo la maglia della Lazio, metà celeste e metà bianca, con l’aquila stilizzata sul petto tesa a rappresentare un sentimento di salvezza, salvezza che venne conquistata sul campo grazie ad una vittoria voluta e sofferta: una vittoria ottenuta con la divisa più bella, quella divisa definita dagli esperti come una delle 5 top al mondo, divisa la cui sacralità, dopo quella gara storica, assunse i caratteri epici dei poemi omerici. Quella sacralità della casacca la fa accomunare ad un’altra sacralità di un altro evento e di un’altra squadra, dallo stesso colore cromatico, il celeste; parliamo di una piccola grande Nazionale, quella dell’Uruguay. Era il 1950, il mondo è ancora sconvolto dalla Seconda Guerra Mondiale e la FIFA si trova a dover organizzare un mondiale. Il Brasile si presenta come unico candidato, in quanto sola Nazione in grado di ospitare un evento simile perché non coinvolta dal conflitto bellico. È il 16 luglio 1950, allo stadio Maracanà ci sono quasi 200mila spettatori.  Si racconta che il capitano della “celeste” Varela, prima di entrare in campo, abbia bloccato i compagni di squadra dicendo loro: «Los de afuera son de palo», quelli là fuori non esistono, poi rivolgendosi a Maspoli, uno dei più grandi portieri uruguagi, concludeva: «Chi la indossa, indossa una cosa sacra». Il primo tempo passò costellato da un susseguirsi di occasioni dei carioca e contropiedi, spesso pericolosi, degli uruguagi. Si va negli spogliatoi sullo 0-0, ma all’inizio della seconda frazione di gioco la seleção va subito in rete con Friaça. L’Uruguay, guidato da Varela, non si scompone, si riorganizza e riesce anche a ottenere il pareggio con Schiaffino. Il gol subìto influisce nel morale della squadra di casa, che addirittura subisce in contropiede l’1-2. Il diagonale velenoso che batte Barbosa è di Ghiggia. In un Maracanà ammutolito ai limiti del surreale, i brasiliani tentano disperatamente di segnare il gol del pareggio, ma invano. La celeste diventa così campione del mondo. Al fischio finale si registrano infarti e suicidi, in Brasile vengono addirittura proclamati tre giorni di lutto nazionale. La federazione brasiliana decide, allora, cambiare la sua divisa, maglia gialla, pantaloncini blu e calzettoni bianchi in sostituzione del completo totalmente bianco con rifiniture blu usato fino a quella maledetta finale. Questa narrazione fa capire quanto la maglia sia l’essenza di quel sentimento ancoro puro ed invalicabile, malgrado modernità e commercializzazione e prendendo spunto dalla mitologia greca, la maglia è, e rimarrà una sorta di divinità.  di Emiliano Foglia

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